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Dopo la strage in Colorado: boom nelle vendite di armi

Questo interessante post di Rampini (che adoro) pubblicato su Repubblica.it http://rampini.blogautore.repubblica.it/2012/07/25/dopo-la-strage-in-colorado-boom-nelle-vendite-di-armi/

Continuo a non comprendere come sia possibile pensare che armarsi, possedere un’arma sia sinonimo di libertà e  di difesa personale. Con tutte le brutte esperienze che si fanno, quante volte ho invocato un’arma per difendermi, per reagire ad un sopruso in quel momento che ritenevo inaccettabile e successivamente ho analizzato con più raziocinio.

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La prima reazione alla strage di Aurora: una forte impennata nelle vendite di armi, in fortissimo aumento in questi giorni nello Stato del Colorado. E’ proprio la risposta auspicata e suggerita dalla potente lobby delle armi, la National Rifle Association: che si è affrettata a dare la sua “interpretazione” dell’accaduto: se in quel cinema di Aurora ci fossero stati dei “buoni cittadini” armati fino ai denti, il loro intervento avrebbe neutralizzato l’assassino. Dunque le stragi non inducono un ripensamento, anzi.
283 milioni di armi da fuoco possedute da civili, escluse quelle in dotazione a polizia e militari: quasi una per ogni americano. 11 milioni di nuove armi vendute ogni anno. E’ l’Arsenale America: la nazione più ricca del mondo è armata fino ai denti, convinta così di “difendersi” dal pericolo, oltre che di realizzare un sacro diritto costituzionale. Il risultato che ottiene è l’opposto. Ogni anno centomila americani vengono colpiti con armi da fuoco, l’anno scorso oltre 31.000 ne sono morti, 67.000 sono rimasti feriti spesso gravemente e con conseguenze irreparabili. Dall’inizio di quest’anno siamo già a quota 54.931 vittime tra morti e feriti, con un ritmo di 121 uccisi al giorno. Il conteggio viene tenuto ora per ora sul sito del Brady Center, l’ong che prende il nome dall’ex addetto stampa di Ronald Reagan che fu ferito e paralizzato nel 1981 nell’attentato contro il presidente. Dal 1968, l’anno in cui furono assassinati Martin Luther King e Bob Kennedy, l’ecatombe si avvicina alle più gravi guerre della storia umana: un milione di morti.
Il tasso di omicidi con arma da fuoco negli Stati Uniti è venti volte superiore alla media delle altre nazioni sviluppate, un raffronto che venne già usato da Michael Moore nel suo documentario “Bowling for Columbine” (grande successo di pubblico e di critica; conseguenze pratiche: zero). Contro l’ideologia del “difenditi da solo”, le prove sono schiaccianti: chiunque abbia in casa un’arma ha cinque volte più probabilità di usarla per suicidarsi, tre volte più chance di essere autore o vittima di un omicidio.

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“Grazie caro papà” – LETTERA DEL FIGLIO DI PAOLO BORSELLINO

MANFREDI BORSELLINO. Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.

Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.

Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.
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Delocalizzazione, come difendersi?

Fonte Rassegna.it
La monovolume L0 va in Serbia. Con una semplice dichiarazione, dalle colonne di un quotidiano, l’ad di Fiat Marchionne annuncia un’altra delocalizzazione. O meglio, comunica la decisione a sindacati e lavoratori, che non sono stati informati né consultati. E’ solo l’ultimo spostamento di produzione che – dalla fine del 2008 e l’inizio della crisi – interessa il nostro paese.
La minaccia di lasciare l’Italia arriva sui tavoli di trattativa, le organizzazioni sindacali sono chiamate a leggere questa situazione nuova e trovare le armi per affrontarla. Come difendersi dalla delocalizzazione? Cosa possono fare i sindacati internazionali? Come rispondere alle grandi aziende? Abbiamo cercato la possibile ricetta in alcune domande.

“Sarebbe bene che intervenisse il sindacato internazionale, ma finora non è riuscito a organizzare una lotta comune in modo sufficiente”. E’ l’opinione di Aris Accornero, professore emerito di Sociologia industriale all’Università di Roma. Le difficoltà delle sigle sovranazionali sono “un retaggio molto antico”, sostiene: “Erano nate per avvicinare tutti i lavoratori mondiali, ma ancora non definiscono un’azione congiunta. Il capitale si muove più in fretta del lavoro”.

Insomma, “di fronte all’assalto della delocalizzazione, la risposta è ancora debole. Poi è normale che nei vari paesi ci sia una coscienza più o meno sviluppata, nel caso specifico della Fiat è il sindacato italiano che deve incidere, certo non quello serbo”. L’annuncio del Lingotto è una vera e propria offensiva, secondo Accornero: “E’ un assalto che riguarda tutti, sia il sindacato collaborativo che quello conflittuale, una mossa che estende il ‘teatro di guerra’”. Non è casuale che arrivi dopo l’accordo separato di Pomigliano: “Le questioni sono strettamente collegate – anzi – e prefigurano un’evoluzione nelle relazioni sindacali all’interno della Fiat”.

I sindacati come possono difendersi? Per Renato Fontana, docente di Sociologia industriale alla Sapienza di Roma, è una questione molto complessa. Ovvero: “Attualmente sono utili entrambe le posizioni: una linea moderata e di compromesso e un’altra meno disponibile e più intransigente”. Meglio avere atteggiamenti diversi, a suo giudizio: “Così si avrà uno sventagliamento di idee differenti, che può limitare l’azione discrezionale di grandi aziende come la Fiat”.

“La Fiom – secondo il sociologo – ha ragione quando difende i diritti acquisiti. Ma forse oggi non possono essere difesi ad oltranza, il mercato globale impone un altro sistema di regole”. Il sindacato corre un forte rischio: “Quello di avere un potere solo figurativo, incidere poco, e lasciare che l’azienda faccia saltare il banco delocalizzando”. Senza contare che lo spettro di Serbia, Polonia, eccetera può condizionare i confronti. “Se i sindacati non accettano le condizioni, l’azienda lascia l’Italia e parte l’erosione dei diritti. In teoria – prosegue -, c’è anche un’altra possibilità: se la delocalizzazione diventa davvero materia di trattativa, allora i lavoratori potrebbero venire informati e avere un nuovo tema su cui esprimersi”. Sindacati internazionali in difficoltà? “Oggi il loro valore è prossimo allo zero – riflette Fontana -, ma proprio la delocalizzazione può essere un’occasione per uscire da questa impasse. Se le aziende si danno una dimensione internazionale, dovrebbero farlo anche i sindacati”.

Come rafforzare i sindacati internazionali lo spiega Enzo Masini, coordinatore nazionale del settore auto della Fiom: “Possono avere un ruolo di coordinamento e conoscenza, ma devono anche intervenire sulle politiche industriali”. La strada è aprire un confronto con le imprese europee, con l’obiettivo comune di creare prodotti innovativi, competitivi, ad alto valore aggiunto. “In questo modo – a suo avviso – non ci sarebbero problemi a tenere aperte le fabbriche in tutti i paesi, anche quelli con alto costo del lavoro come l’Italia”. Oggi questo sembra lontano, Masini fa autocritica: “Scontiamo un ritardo delle organizzazioni sindacali, che sono ancora organizzate su basi nazionali e non riescono a definire rivendicazioni comuni. Così si fa solo una battaglia difensiva”.

Una battaglia che nel nostro paese è particolarmente dura: “Non siamo neanche supportati dalle politiche del governo, come Francia e Germania”. Il comportamento delle grandi aziende non aiuta: “Non è esatto dire che la delocalizzazione entra nella trattativa. La Fiat l’ha usata solo come arma di ricatto. Su questo tema non riconosce il confronto con i lavoratori, si limita a porre delle condizioni: se non vengono accettate va a produrre altrove”.

“Guerra alla terra” di PeaceReporter

Tratto da Emergency, riporto la critica a questo interessante libro.

<<Quando avete abbattuto l’ultimo albero, quando avete pescato l’ultimo pesce, quando avete inquinato l’ultimo fiume, allora vi accorgerete che non si può mangiare il denaro>>, Ta-Tanka I-Yotank (Toro Seduto).
L’acqua nei territori palestinesi. Il petrolio nel Delta del Niger. Il litio del Salar Uyuni in Bolivia. Il territorio strategicamente fondamentale dell’Afganistan. Per appropriarsi di ognuna di queste risorse naturali è stato scatenato un conflitto, anche a costo di devastare gli ecosistemi, affamare (e assetare) una popolazione o minare il territorio di un’intera nazione.

La fame di ricchezza può passare sopra a tutto, anche alle conseguenze che queste azioni di rapina comportano. Le risorse del pianeta sono un bene limitato di cui tutti noi dovremmo disporre, ma della disinvoltura con cui vengono danneggiate e sprecate difficilmente ci rendiamo conto. Soprattutto quando il prezzo per la loro disponibilità vien pagato in un “altrove” che non è sotto i nostri occhi.

I giornalisti di PeaceReporter raccontano storie di guerra che hanno un movente comune: la contesa per le risorse naturali. Le materie prime servono a produrre beni e servizi utili alla società, am non sono infinite e nemmeno equamente distribuite. In molti casi le risorse che garantiscono gli elevati standard di vita alla parte ricca e pacifica del mondo si trovano in quella povera e devastata dalle guerre.
Ciononostante, nessuno sembra disposto a pagare il giusto prezzo o a smettere di utilizzarle.
Guerra alla Terra è un viaggio in zone del mondo dove, nell’indifferenza generale, si manifesta il volto peggiore dell’economia globale.

Il libro costa 14 euro ed una parte delle royalties sarà devoluta al Centro chirurgico per le vittime di guerra a Lashkar-gar, in Afghanistan

Discorso di Piero Calamandrei sulla Costituzione

Un discorso di straordinaria attualità, moderno, a difesa della nostra Costituzione, del lavoro, dei lavoratori.

Domandiamoci che cosa è per i giovani la Costituzione. Che cosa si può fare perché i giovani sentano la Costituzione come una cosa loro, perché sentano che nel difendere, nello sviluppare la Costituzione, continua, sia pure in forme diverse, quella Resistenza per la quale i loro fratelli maggiori esposero, e molti persero, la vita.

Uno dei miracoli del periodo della Resistenza fu la concordia fra partiti diversi, dai liberali ai comunisti, su un programma comune. Era un programma di battaglia: Via i fascisti! Via i tedeschi!

Questo programma fu adempiuto. Ma il programma comune di pace, fu fatto in un momento successivo. E fu la Costituzione.

La Costituzione deve essere considerata, non come una legge morta, deve essere considerata, ed è, come un programma politico. La Costituzione contiene in sé un programma politico concordato, diventato legge, che è obbligo realizzare.

La nostra Costituzione, lo riconoscono anche i socialisti, non è una Costituzione che ponga per meta all’Italia la trasformazione della società socialista. La Costituzione è nata da un compromesso fra diverse ideologie. Vi ha contribuito l’ispirazione mazziniana, vi ha contribuito il marxismo, vi ha contribuito il solidarismo cristiano. Questi vari partiti sono riusciti a mettersi d’accordo su un programma comune che si sono impegnati a realizzare. La parte più viva, più vitale, più piena d’avvenire, della Costituzione, non è costituita da quella struttura d’organi costituzionali che ci sono e potrebbero essere anche diversi: la parte vera e vitale della Costituzione è quella che si può chiamare programmatica, quella che pone delle mete che si debbono gradualmente raggiungere e per il raggiungimento delle quali vale anche oggi, e più varrà in avvenire, l’impegno delle nuove generazioni.

Nella nostra Costituzione c’è un articolo che è il più impegnativo, impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti. Esso dice: << E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che, limitando di fatta la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese >>.

<< E’ compito… di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana >> ! Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità d’uomini.

Soltanto quando questo sarà raggiunto si potrà veramente affermare che la formula contenuta nell’articolo 1: << L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro>>, corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messi a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte: in parte è ancora un programma, un impegno, un lavoro da compiere.

Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!

E’ stato detto giustamente che le Costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle Costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica di solito è una polemica contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà che oggi sono elencate e riaffermate solennemente erano sistematicamente disconosciute. Ed è naturale che negli articoli della Costituzione ci siano ancora echi di questo risentimento e ci sia una polemica contro il regime caduto e l’impegno di non far risorgere questo regime, di non far ripetere e permettere ancora quegli stessi oltraggi. Per questo nella nostra Costituzione ci sono diverse norme che parlano espressamente, vietandone la ricostituzione, del partito fascista. Ma nella nostra Costituzione c’è qualcosa di più, questo soprattutto i giovani devono comprendere.

Ma c’è una parte della Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società. Perché quando l’articolo vi dice: << E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana >>, riconosce con ciò che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto, e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione! Un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.

Ma non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria perché <<rivoluzione>>, nel linguaggio comune, s’intende qualche cosa che sovverte violentemente. Ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che anche quando ci sono le libertà giuridiche e politiche, esse siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche e dall’impossibilità per molti cittadini d’essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica potrebbe anch’essa contribuire al progresso della società.

Quindi polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente.

Però, vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: lo lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno, in questa macchina, rimetterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere quelle promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo, che è, non qui per fortuna, in questo uditorio ma spesso in larghi strati, in larghe categorie di giovani. E’ un po’ una malattia dei giovani, l’indifferentismo. << La politica è una brutta cosa >>. << Che me ne importa della politica?>>.

Quando sento pronunciare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due migranti, due contadini che attraversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime. Il piroscafo oscillava e allora quando il contadino, impaurito, domanda ad un marinaio: << Ma siamo in pericolo? >> e quello dice: << Se continua questo mare, fra mezz’ora il bastimento affonda >>. Allora lui corre nella stiva, va a svegliare il compagno e grida: << Beppe, Beppe, Beppe! >>. – <<Che c’è? >>. – << Se continua questo mare, fra mezz’ora il bastimento affonda! >>. E quello: << Che me ne importa, non è mica mio! >>.

Questo è l’indifferentismo alla politica: è così bello, è così comodo, la libertà c’è, si vive in regime di libertà, ci sono altre cose da fare che interessarsi di politica. Lo so anch’io. Il mondo è bello, vi sono tante belle cose da vedere e godere oltre che occuparsi di politica. E la politica non è una piacevole cosa.

Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso d’asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso d’angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso d’angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica.

La Costituzione, vedete, è l’affermazione, scritta in questi articoli che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune: ché, se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento.

E’ la carta della propria libertà, la carta, per ciascuno di noi, della propria dignità d’uomo.

Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946. Questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, per la prima volta andò a votare, dopo un periodo d’orrori, di caos, la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi.

Io ero, ricordo, a Firenze. Lo stesso è capitato qui: queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta, lieta perché aveva la sensazione di aver ritrovato la propria dignità: questo dare il voto, questo portare la propria opinione, per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi della nostre sorti, delle sorti del nostro paese.

Quindi voi, giovani, alla Costituzione dovette dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendervi conto, rendervi conto, che ognuno di noi non è solo, non è solo; che siamo in più, che siamo parte anche di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo.

Ora, vedete, io non ho altro da dirvi: in questa Costituzione di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie; essi sono tutti sfociati qui in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli si sentono delle voci lontane.

La corruzione nel mondo. L’Italia perde altre 8 posizioni

di Alex Bauiscia

E’ stato stilato l’annuale Indice di corruzione percepita (Corruption Perceptions Index – CPI).
Una classifica in cui viene redatto il grado di corruzione nella società per ogni Paese, attraverso un voto da uno a dieci. Dieci rappresenta la totale trasparenza.
Nella tabella viene mostrato il numero di indagini a cui è stato sottoposto ogni Paese, e il grado di affidabilità della votazione. In media, si attesta attorno al 90%.
Il CPI si basa su 13 indagini indipendenti, ma non tutte queste indagini coprono tutti i Paesi.

L’Italia dov’è?
Al numero 63. Ciò significa che, oltre a sembrare, secondo questo indice, più corrotti di praticamente tutta l’Europa occidentale – eccetto quella balcanica compresa la Grecia – siamo comunque messi peggio della Turchia, che ci sopravanza di una posizione, di Cuba, della Namibia. Non solo, ma salendo di posizione, meno corrotte dell’Italia sono la Malesia, il Bhutan, il Botswana – spesso negli ultimi anni eccellente in queste classifiche – e tutte le repubbliche baltiche – anche se sono in grave crisi economica, tanto da essere a rischio default come l’Ucraina.
http://www.agoravox.it/attualita/economia/article/la-corruzione-nel-mondo-l-italia-10879
La Cina non ci segue da lontano, al 79° posto, mentre l’India è all’84°. Male i Paesi balcanici, come detto, tra l’80° e la 90° posizione, ma ancora peggio l’Argentina (106° posizione) che deve ancora recuperare dal tracollo economico.

I nostri partner preferiti, i libici di Gheddafi, guidati da quello che è un rispettabile dittatore dal nostro governo e “leader rivoluzionario”, si attestano in 138° posizione. Più si scende in classifica, più si nota che i Paesi più corrotti sono quelli guidati da dittature, al contrario di come qualcuno crede che una leadership forte crei anche una lotta potente alla corruzione. Per non parlare della Russia, al 146° posto.

Nel fondo della classifica, con valori di corruzione percepita inferiori al 2 – quindi molto alta – vi sono Paesi in guerra o da cui la guerra è appena passata. Dei peggiori, la prima nazione è la Somalia – in cui in realtà non vi è un vero e proprio governo – seguita da Afghanista, Myanmar (Birmania), Sudan, Iraq, Chad, alcuni Paesi centro-asiatici e l’Iran (168° posizione).

Secondo l’Indice, comunque, i Paesi industrializzati e democratici non sono affatto esenti da corruzione. In queste parti del Mondo, però, essa deriva principalmente dalla possibilità di uscire dalle leggi sfruttando i paradisi fiscali, che dovrebbero essere interdetti, e usufruendo del segreto bancario, come quello ormai abolito in Svizzera, con la conseguente fuga di capitali dal Paese.
Dal 1990 al 2005, sono stati smascherati 283 cartelli internazionali, che sono costati ai consumatori circa 300 miliardi di dollari in sovrapprezzi.

Un ultimo appunto. Tra i paesi dell’Europa Occidentale e Unione Europea, l’Italia è quartultima. Peggio solo Bulgaria, Grecia, passata da un punteggio di 4.7 nel 2008 a 3.6 oggi, e Romania.

Il paese dei finti cattolici | Camminando Scalzi…Walking Barefoot

Il paese dei finti cattolici | Camminando Scalzi…Walking Barefoot.

Abbiamo sicuramente sentito tutti parlare della discussa sentenza della Corte Europea, che “vieta” l’esposizione di simboli religiosi nelle classi degli alunni.

Partiamo prima di tutto dal simbolo religioso, quel famoso crocifisso di cui si è tanto -troppo- parlato in questi ultimi giorni. La crocifissione di Gesù è l’ultimo atto della sua vita in terra, il suo sacrificio per salvare l’umanità dai propri peccati. E’ una tortura violenta, sanguinaria, è il momento più drammatico e forse più alto di tutta la storia di Cristo. Comincia ad essere utilizzata come simbolo dai cristiani intorno al IV secolo, quando l’imperatore Costantino vietò la pena capitale eseguita in questa maniera e cominciò il processo di conversione. Nel 692, al Concilio di Trullo, fu deciso di utilizzare la crocifissione di Gesù -non la croce o il crocifisso, come spesso detto in questi giorni- come simbolo fondante della religione cristiana.

Passano quei millequattrocento anni (anno più anno meno), e nel frattempo il mondo cambia. La Chiesa (intesa come Istituzione chiesa Cattolica) conosce diversi momenti bui e meno bui, e arriva pian piano in un’epoca moderna, dove comincia a perdere il suo “potere” così tanto radicato nei secoli. E si ritrova in un posto che non è più il suo. Il mondo è andato avanti, la Chiesa è rimasta ferma.

Il suo è un potere concreto che si è sempre basato -nel passato remoto- sull’ignoranza, sulla poca cultura, sulla facilità con cui si influenzava la gente. Ma la società evolve, la cultura cambia, le persone cominciano ad informarsi. E si arriva così al giorno d’oggi, era in cui c’è poco posto per LA religione, e il mondo comincia sempre di più a diventare un colorato mosaico composto dalle più disparate forme di credo. Si giunge, naturalmente, all’abbandono lento ma costante della visione della Chiesa Cattolica come centro del mondo, grazie all’inesorabile aumento dell’informazione e del livello culturale medio. E’ un mondo che sta andando sempre di più nella direzione della multiculturalità, del rimescolarsi di popoli, dei colori, spiritualità delle più disparate con un unico, dichiarato, obiettivo comune: l’integrazione. E’ un mondo che non vuole più essere diviso in compartimenti stagni, con Maometto da una parte e Gesù dall’altra. Basta fare un giro in una qualsiasi grande città europea: passeggiano per strada indiani, turchi, marocchini, ebrei, bianchi, neri, ognuno con la sua vita. L’uomo d’affari, il fattorino, lo yuppi in carriera, e così via.

Noi però viviamo in Italia. Da noi l’indiano lo vediamo al semaforo a lavare i vetri, i neri li affondiamo sui loro barconi della disperazione, e disinfettiamo i sedili dei treni dove viaggia gente che ha la sfortuna di avere il colore della pelle diverso dal giallo-spaghetti di noi pizzapizzamariscià. Viviamo in Italia, il paese dove la Chiesa Cattolica ha il suo Stato (!!!), il paese che professa una laicità mai dimostrata nel concreto, il paese che non fa pagare l’ICI ai preti, che “regala” l’otto per mille, che promuove le scuole private gestite da ecclesiasti (Cattolici), che si indigna quando viene varata una regola che è forse la più importante della cultura cattolica: il rispetto del prossimo.

L’Unione Europea, nei suoi intenti di creare uno stato unitario che rappresenti l’unione di tutte le culture di tutte le nazioni che la compongono, si sta muovendo chiaramente verso questa moderna e sacrosanta (è proprio il caso di dirlo) direzione. Dare a tutti lo stesso valore, rispetto, uguaglianza. Questo nel concreto vuol dire anche vietare l’esposizione di simboli religiosi nelle scuole.
Mettetevelo tutti bene in testa: non è una questione di religione, di mancato rispetto, di scavalcare il potere (!!!) della Chiesa. Si tratta semplicemente di permettere alle nuove generazioni di crescere in un clima più libero possibile nei luoghi di istruzione, posti in cui è necessario il massimo equilibrio, la massima serenità, la massima uguaglianza. E mettiamoci bene in testa anche quest’altra cosa: l’epoca del “ognuno a casa propria” è finita. C’è la necessità impellente di imparare a convivere con le più diverse forme culturali presenti su questo disastrato pianeta. E poco importa che io sia cattolico, tu musulmano, lui protestante e quell’altro ancora buddista. La scuola è un centro di istruzione e di formazione, deve essere un luogo “culturalmente neutro”. Il rispetto per il prossimo finisce nel momento in cui obblighiamo un bambino di un’altra religione a stare in un luogo dove c’è un simbolo che non lo rappresenta. Come fa a rapportarsi con gli altri, con la realtà che lo circonda, come fa ad integrarsi con gli altri, e gli altri ad integrarsi con lui, se gli spariamo in faccia ogni giorno che lui è un “diverso”?
La questione è tutta qua; spinosa, fastidiosa da raccontare, ma è tutta qua. Bisogna esser ciechi per non vederla.

Non è difficile immaginare il perché di tante polemiche. La Chiesa (intesa sempre come istituzione-stato, sia chiaro, non come credo) sta lentamente, ma inesorabilmente, perdendo il potere di influenza che ha accumulato ed esercitato per secoli e secoli. Con l’avvento dell’era dell’Informazione, la gente ha cominciato a ragionare con la propria testa. E questo allo Stato Vaticano non sta bene. I fedeli sono business, soldi che girano, e i soldi che girano sono potere.Perché se un giorno la maggioranza della gente (e in questo caso la speranza nelle nuove generazioni è tanta) smettesse di stare così tanto appresso all’istituzione Chiesa e magari si concentrasse a rivedere il rapporto con la religione come una cosa intima, personale, dove nessuno deve e può metter bocca, l’istituzione Chiesa andrebbe via via sparendo. E’ l’ennesima anomalia tutta italiana, perché in nessun altro paese moderno e civile di questo mondo sarebbe accaduto quello che è successo, che so, per il caso Englaro.

Sul mondo politico e sulle sue reazioni al “verdetto” della Corte europea non c’è molto da dire. Nel senso che ci ritroveremmo a dire le stesse cose che sono state dette pertanti altri argomenti. L’incoerenza impera. Tutti improvvisamente, chinando il capo, si professano cattolici, si schierano in difesa del Cristianesimo e diventano squallidi paladini di una guerra che non gli appartiene, né a loro né allo stato italiano. C’è chi discrimina il prossimo, c’è chi va con le prostitute, c’è chi organizza le ronde punitive, chi rimbalza i barconi della speranza, chi fa leggi contro gli immigrati. Gente che sarebbe radiata in tronco dall’albo del buon Cristiano Cattolico, semmai questo esistesse. Eppure sono tutti lì a farsi belli, come se ci fosse una sorta di riverente “rispetto” per l’Istituzione Chiesa, che non va mai inimicata, per carità. Tutto questo in uno Stato che, ribadisco, si professa laico e moderno.

In definitiva bisogna fare tutti un passo indietro. Non è certo esponendo un proprio simbolo nei luoghi pubblici che si dimostra il proprio credo, non è certo imponendolo. Il proprio credo si professa nelle opere, nelle azioni, nel modo di vivere e nella moralità. E, pensandoci bene, queste sono tutte cose che devono rimanere “relegate” nella sfera personale di ogni individuo, sia esso cristiano ortodosso, cattolico, protestante, musulmano, buddista, animista o creda nella chiesa Jedi.

Noi siamo un paese laico. Lasciate che i nostri figli crescano in un paese laico.

Le Quattro Giornate di Napoli

…. per non dimenticare
[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=H-57_13ShkM[/youtube]

Da Wikipedia
« Dopo Napoli la parola d’ordine dell’insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu allora la direttiva di marcia per la parte più audace della Resistenza italiana »
(Luigi Longo, “Un Popolo alla macchia”, Editori Riuniti, Roma, 1974, ISBN 9788835906056, pag. 102)
Con il nome di Quattro Giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) si indica comunemente un episodio storico di insurrezione avvenuto nel corso della Seconda Guerra Mondiale, tramite il quale la popolazione, con l’apporto di militari fedeli al cosiddetto Regno del Sud, riuscì a liberare la città di Napoli dall’occupazione delle forze armate tedesche, coadiuvati da fascisti fedeli al neonato Stato Nazionale Repubblicano.
L’avvenimento, che valse alla città di Napoli il conferimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare, consentì alle forze alleate di trovare al loro arrivo, il 1 ottobre 1943, una città già libera dall’occupazione nazista, grazie al coraggio e all’eroismo dei suoi abitanti, ormai esasperati ed allo stremo per i lunghi anni di guerra. Napoli fu la prima, tra le grandi città italiane, ad insorgere contro l’occupazione nazista.

Giancarlo Siani avrebbe compiuto 50 anni il 19-9-2009

Giancarlo Siani, un grande uomo, un grande giornalista ammazzato da luridi camorristi e lasciato solo, come spesso accade, da chi doveva proteggerlo ovvero le istituzioni, lo Stato ma anche da noi cittadini.

Riporto una nota di Giuseppe Mastrolia

50 anni fa, il 19 settembre 1959, nacque a Napoli il giornalista Giancarlo Siani, assassinato dalla camorra il 23 settembre 1985, quattro giorno dopo aver compiuto 26 anni . Siani iniziò sin da giovanissimo a scrivere per il periodico “Osservatorio sulla camorra”, focalizzando il proprio lavoro sulle gerarchie delle famiglie camorristiche che comandavano la malavita di Torre Annunziata e della zona oplontina. In seguito lavorò come corrispondente de “Il Mattino” dalla sede distaccata di Castellamare di Stabia. Il 10 giugno 1985 il giovane giornalista pubblicò un articolo contenente delle rilevazioni, ottenute grazie ad un amico carabiniere, dalle quali emerse che il clan Nuvoletta – organizzazione contrapposta al disegno cutoliano ed esponente della “Nuova Famiglia” – con una “soffiata” rese possibile l’arresto del boss Valentino Gionta, catturato a Poggio Vallesano subito dopo aver lasciato la tenuta del boss Lorenzo Nuvoletta – in seguito i collaboratori di giustizia hanno rivelato che l’arresto di Gionta fu il prezzo pagato dal clan per ottenere un patto di non belligeranza con il capo storico della camorra casertana, Antonio Bardellino. La notizia pubblicata da “Il Mattino” mise in cattiva luce il clan Nuvoletta che, “vendendo” il boss Valentino Gionta alla polizia, furono etichettati come degli “infami ” dagli altri clan partenopei. I capo-clan Lorenzo e Angelo Nuvoletta si riunirono più volte per discutere su come eliminare Siani, decisero di farlo quattro mesi dopo l’uscita dell’articolo. Giancarlo Siani fu ucciso in Via Vincenzo Romaniello, alle 20.50 di mercoledì 25 settembre mentre stava tornando a casa dei genitori, residenti al Vomero. Per l’omicidio, il 15 aprila 1997, sono stati condannati all’ergastolo i tre mandanti Angelo Nuvoletta, Valentino Gionta e Luigi Baccante e gli esecutori materiali del delitto Ciro Cappuccio e Armando Del Core. Il 27 marzo 2009 è uscito “Fortàpasc”, un film diretto da Marco Risi, che racconta gli ultimi quattro mesi di vita del cronista partenopeo.

Giancarlo Siani, un esempio per chi crede nella verità.

In seguito è riportato il testo dell’articolo scritto da Siani e pubblicato il 10 giugno 1985 da “Il Mattino”:

Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l’arresto del super latitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli ambienti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse «scaricato», ucciso o arrestato.
Il boss della Nuova famiglia che era riuscito a creare un vero e proprio impero della camorra nell’area vesuviana, è stato trasferito al carcere di Poggioreale subito dopo la cattura a Marano l’altro pomeriggio. Verrà interrogato da più magistrati in relazione ai diversi ordini e mandati di cattura che ha accumulato in questi anni. I maggiori interrogativi dovranno essere chiariti, però, dal giudice Guglielmo Palmeri, che si sta occupando dei retroscena della strage di Sant’Alessandro.
Dopo il 26 agosto dell’anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di «Nuova famiglia», i Bardellino. I carabinieri erano da tempo sulle tracce del super latitante che proprio nella zona di Marano, area d’influenza dei Nuvoletta, aveva creduto di trovare rifugio. Ma il boss di Torre Annunziata, negli ultimi anni, aveva voluto «strafare».
La sua ascesa tra il 1981 e il 1982: gli anni della lotta con la «Nuova camorra organizzata» di Raffaele Cutolo. L’11 settembre 1981 a Torre Annunziata vengono eliminati gli ultimi due capizona di Cutolo nell’area vesuviana, Salvatore Montella e Carlo Umberto Cirillo. Da boss indiscusso del contrabbando di sigarette (un affare di miliardi e con la possibilità di avere a disposizione un elevato numero di gregari) Gionta riesce a conquistare il controllo del mercato ittico.
Con una cooperativa, la Do. Gi. pesca (figura la moglie Gemma Donnarumma), mette le mani su interessi di miliardi. È la prima pietra della vera e propria holding che riuscirà a ingrandire negli anni successivi. Come «ambulante ittico», con questa qualifica è iscritto alla Camera di Commercio dal ‘68, fa diversi viaggi in Sicilia dove stabilisce contatti con la mafia. Per chi può disporre di alcune navi per il contrabbando di sigarette (una viene sequestrata a giugno al largo della Grecia, un’altra nelle acque di Capri) non è difficile controllare anche il mercato della droga.
È proprio il traffico dell’eroina uno degli elementi di conflitto con gli altri clan in particolare con gli uomini di Bardellino che a Torre Annunziata avevano conquistato una fetta del mercato. I due ultimatum lanciati da Gionta (il secondo scadeva proprio il 26 agosto) sono alcuni dei motivi che hanno scatenato la strage. Ma il clan dei Valentini tenta di allargarsi anche in altre zone. Il 20 maggio a Torre Annunziata viene ucciso Leopoldo Del Gaudio, boss di Ponte Persica, controllava il mercato dei fiori di Pompei. A luglio Gionta acquista camion e attrezzature per rimettere in piedi anche il mercato della carne. Un settore controllato dal clan degli Alfieri di Boscoreale, legato a Bardellino.
Troppi elementi di contrasto con i rivali che decidono di coalizzarsi per stroncare definitivamente il boss di Torre Annunziata. E tra i 54 mandati di cattura emessi dal Tribunale di Napoli il 3 novembre dell’anno scorso ci sono anche i nomi di Carmine Alfieri e Antonio Bardellino. Con la strage l’attacco è decisivo e mirato a distruggere l’intero clan. Torre Annunziata diventa una zona che scotta. Gionta Valentino un personaggio scomodo anche per gli stessi alleati. Un’ipotesi sulla quale stanno indagando gli inquirenti e che potrebbe segnare una svolta anche nelle alleanze della «Nuova famiglia». Un accordo tra Bardellino e Nuvoletta avrebbe avuto come prezzo proprio l’eliminazione del boss di Torre Annunziata e una nuova distribuzione dei grossi interessi economici dell’area vesuviana. Con la cattura di Valentino Gionta salgono a ventotto i presunti camorristi del clan arrestati da carabinieri e polizia dopo la strage.
Ancora latitanti il fratello del boss, Ernesto Gionta, e il suocero, Pasquale Donnarumma.

http://periodicoitaliano.info/2009/09/19/oggi-giancarlo-siani-avrebbe-compiuto-50-anni/

Io ci sto

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=k_9vT3fOc0w[/youtube]

Mi alzo al mattino con una nuova
Illusione,prendo il 109 per la Rivoluzione,
e sono soddisfatto Un poco saggio un poco matto
Penso che fra vent’anni finiranno I miei affanni
Ma ci ripenso però, mi guardo intorno per un po’
e mi accorgo che son solo,
in fondo è bella però è la mia età e io ci sto
Si dice che in America tutto è Ricco tutto è nuovo,
puoi salire In teleferica
su un grattacielo e farti un uovo,
io cerco il rock’n’Roll al bar e nei metrò,
cerco una bandiera diversa senza sangue sempre tersa
Ma ci ripenso però, mi guardo intorno per un po’
e mi accorgo che son solo,
In fondo è bello però , è il mio Paese e io ci sto
Mi dicono alla radio statti calmo statti buono
non esser scalmanato stai tranquillo e fatti uomo
ma io con la mia guerra voglio andare sempre avanti,
e costi quel che costi la vincerò non ci son santi
Ma ci ripenso però, mi guardo intorno per un po’
e mi accorgo che son solo,
ma in fondo è bella però è la mia guerra e io ci sto
cerco una donna che sia la meglio
che mi sorrida al mio risveglio
e che sia bella come il sole d’agosto
intelligente si sa
ma in fondo è bella però è la mia donna e io ci sto

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